La grande ipocrisia della privacy online

A sei mesi dall’adozione delle nuove linee guida sul consenso GDPR, il bilancio per gli editori digitali è quello di una tragedia annunciata.

A gennaio di quest’anno in Italia sono state introdotte linee guida più stringenti per la raccolta del consenso GDPR. In estrema sintesi, all’interno dei cookie banner, gli editori devono prevedere l’inserimento di una X o un testo di rifiuto esplicito che permetta agli utenti di negare il consenso al tracciamento dei propri pattern di navigazione sul web che da sempre vengono utilizzati per un’efficace profilazione delle campagne pubblicitarie. La nuova direttiva espone una delle più incredibili contraddizioni del nostro tempo, un enorme equivoco basato su una scarsissima conoscenza del significato del termine privacy nell’era digitale sia da parte degli utenti che del legislatore stesso. Ci sono tre postulati fondamentali alla base del comportamento degli utenti sul web: 1) la pubblicità piace a pochi, 2) i contenuti a pagamento online piacciono come Pinamonti piace a Roberto Mancini e 3) la privacy online non solo non è mai esistita ma di base, interessa agli utenti come interesserebbe un risotto gorgonzola e speck ad Agosto in Calabria.

Ma siamo sicuri che agli utenti sia chiaro il peso della richiesta che viene fatta loro?

Gli utenti hanno rinunciato da lungo tempo alla tutela della propria privacy digitale, riversando senza alcuna esitazione i propri gusti, tendenze e abitudini di consumo all’interno di piattaforme social, online shopping, email e persino condividendo i propri tratti somatici con applicazioni made in China. Ogni giorno, ciascuno di noi rilascia informazioni personali iper-profilate con Amazon, che conosce esattamente le preferenze di consumo nostre e dei nostri familiari, cosa compriamo, cosa ingeriamo e come ci vestiamo. Ogni giorno condividiamo sulle piattaforme social le nostre storie, momenti importanti della nostra vita e appartenenza a gruppi di opinione.

Da utenti, accettiamo senza remore la profilazione dei nostri dati all’interno di queste piattaforme per un semplice motivo: diamo per scontato che il consenso sia essenziale all’usufrutto dello specifico prodotto o servizio che ci piace. Peccato che le aziende con cui condividiamo quei dati siano nel tempo libero i più grossi network pubblicitari che il mondo abbia mai visto. La verità è che nessuno si scandalizza per questo, la questione ci interessa poco e noi della privacy ce ne siamo sempre infischiati.

Al contrario, quando si tratta di contenuti editoriali sul web, la musica cambia.

Aprendo una qualsivoglia testata web nel nostro paese, all’utente viene mostrato un messaggio incomprensibile sulla falsariga di questo:

“Noi e terze parti selezionate utilizziamo cookie o tecnologie simili per finalità tecniche e, con il tuo consenso, anche per altre finalità come specificato nella cookie policy. Il rifiuto del consenso può rendere non disponibili le relative funzioni.
Per quanto riguarda la pubblicità, noi e terze parti selezionate, potremmo utilizzare dati di geolocalizzazione precisi e l’identificazione attraverso la scansione del dispositivo, al fine di archiviare e/o accedere a informazioni su un dispositivo e trattare dati personali come i tuoi dati di utilizzo, per le seguenti finalità pubblicitarie: annunci e contenuti personalizzati, valutazione degli annunci e del contenuto, osservazioni del pubblico e sviluppo di prodotti.
Puoi liberamente prestare, rifiutare o revocare il tuo consenso, in qualsiasi momento, accedendo al pannello delle preferenze.
Puoi acconsentire all’utilizzo di tali tecnologie utilizzando il pulsante “Accetta”. Chiudendo questa informativa, continui senza accettare.”

E’ sufficiente leggere le prime tre righe di questa supercazzola legalese per capire che all’ utente non vengano forniti gli strumenti minimi per comprendere fino in fondo l’oggetto della richiesta che gli viene sottoposta. Il messaggio che passa è pressoché il seguente: “Accetti una serie incomprensibile di servizi che non comprendi e di cui ignori totalmente le implicazioni pratiche? Oppure semplicemente li rifiuti/ignori e continui a fare quello che eri qui per fare?” Quello che l’utente non sa (che poi è l’unica cosa che gli andrebbe detta) è che rifiutando/ignorando quella pangea informe di richieste contenute nel cookie banner, sta di fatto decretando la fine dell’ internet libero, gratuito e plurale che ha conosciuto fino ad oggi. In altre parole, sta inconsapevolmente accettando una versione pay-per-view di internet che sicuramente non condivide.

Il bilancio di una tragedia annunciata per gli editori italiani

A sei mesi dall’adozione delle nuove linee guida sul consenso GDPR, il bilancio per gli editori digitali è quello di una tragedia annunciata. L’introduzione del nuovo cookie banner ha prodotto un calo delle impressioni pubblicitarie che varia dal -30% al -50% rispetto al primo semestre dell’anno scorso (fidatevi, questo dato vale per tutti gli editori italiani e consiglio vivamente a chi non si ritrova in questa statistica di effettuare test specifici al netto dei dati riportati dalla propria CMP). Questo avviene perché se un utente nega il consenso o semplicemente ignora il cookie banner, non viene mostrata pubblicità profilata che copre la stragrande maggioranza delle campagne ad oggi presenti sul web. Al momento, non esistono soluzioni efficaci per monetizzare utenti non consenzienti, ad eccezione di campagne in reservation o attraverso i limited ads di Google. In altre parole, un disastro totale.

Il mondo cookieless sarà il più clamoroso autogol della storia del web

Quanto successo finora è solo l’inizio di una problematica molto più ampia che si manifesterà in tutta la sua magnitudine nel 2023 con il tramonto dei cookie di terze parti su Google chrome. A quel punto si porterà a compimento il più grande autogol della storia di internet, per mano di un legislatore che in nome di una concezione confusa di privacy e nel tentativo di limitare il monopolio dei colossi del digital ha finito inconsapevolmente (o almeno così si spera) per favorirne il successo definitivo. Il motivo è semplice, la profilazione degli utenti sarà possibile soltanto (semplifico) attraverso la raccolta di dati di prima parte, ovvero dati di navigazione dei propri utenti registrati. Ma chi possiede al giorno d’oggi un volume significativo di dati di prima parte affidabile? Semplice: soltanto Google, Meta, Amazon e Tiktok, ovvero prodotti e servizi a cui gli utenti hanno affidato più o meno consapevolmente la propria vita senza farsi troppe domande.

Possono gli editori raccogliere dati di prima parte?

Un singolo editore può raccogliere dati di prima parte in misura ridotta e con un’efficacia molto bassa in termini relativi. Per comprendere meglio la questione, basti pensare che gli editori web hanno un traffico diretto reale che in media si attesta intorno al 10%-20% (attenzione a non farvi confondere dal dato Google Analytics che è fuorviante poiché include gli accessi da Google Discover), il resto del traffico è tipicamente trainato da Google in tutte le sue forme (Search, News e Discover), referrals e social network. In termini pratici, questo significa che un utente che atterra su un sito editoriale attratto da un contenuto specifico, ha come unico obiettivo quello di leggere quel contenuto con un’attitudine totalmente agnostica alla testata che lo ospita. Che interesse avrebbe un utente del genere a compilare un form di registrazione? Praticamente nessuno. 

La raccolta di dati di prima parte necessita di una strategia più articolata, legata ad un beneficio materiale che l’utente ottiene registrandosi, ad esempio, un’esperienza personalizzata con contenuti rilevanti ed esclusivi che ne giustifichino la registrazione. E’ una strada tortuosa il cui beneficio sarà appannaggio di pochi e che male si presta alle esigenze dell’editore digitale medio. Nella maggior parte dei casi, sottoporre una richiesta di registrazione o subscription in un contesto di navigazione così fugace porterebbe inevitabilmente ad un aumento esponenziale del bounce rate , con una contestuale riduzione di pagine viste e quindi di impressioni monetizzabili.

Sarà un futuro subscription based per gli editori italiani?

Per il 99% degli editori digitali la risposta è no. Di base gli utenti detestano pagare per il consumo di contenuti online e la triste realtà è che la qualità del contenuto giornalistico non è condizione sufficiente all’acquisto di abbonamenti in quanto le notizie sono considerate ormai commodities. E’ un trend destinato a continuare in Italia nei prossimi anni, nonostante la spinta propulsiva negli abbonamenti data dalla pandemia negli ultimi due anni. Il Corriere della Sera, dal mio punto di vista la migliore realtà giornalistica di Italia, ha raggiunto nel 2021 380.000 abbonati, tantissimi in termini relativi nel panorama nazionale ma è un dato che a mio avviso conferma la poca “futuribilità” del modello subscription (almeno in forma pura) nel nostro paese. Che piaccia o no, la pubblicità rimarrà ancora a lungo la principale fonte di sostentamento per l’editoria digitale e il tramonto dei cookies è un grosso colpo alla sostenibilità del sistema editoriale.

Come sopravvivere in un mondo cookieless

La mia intenzione non è quella di dipingere uno scenario apocalittico fine a se stesso ma sensibilizzare tutti sulla necessità di analizzare i fenomeni digitali con maggiore lungimiranza, andando oltre la superficialità che ha caratterizzato questa folle corsa verso la chimera della privacy, un tema troppo complesso per essere liquidato con un cookie banner.

Ciò detto, l’industria del digitale è abituata a gestire cambiamenti epocali come questo e i principali player del settore si sono già mossi da tempo per trovare soluzioni in grado di mitigare l’assenza di cookie di terza parte. Non mi soffermo in questo articolo sulle diverse soluzioni attualmente presenti sul mercato perché in sostanza hanno come minimo comune denominatore quello di individuare il modo più legalmente percorribile per ricreare il concetto di cookie senza avvalersi di cookie

Mi soffermo invece su ciò che un editore potrà realisticamente fare per salvaguardare la propria appetibilità in un mondo cookieless nel quale gli inserzionisti conserveranno le stesse aspettative del mondo cookiefull. Sotto questo aspetto, pochi sanno che un advertising data-driven non deve necessariamente basarsi sul behavioral targeting per essere efficace. Il targeting contestuale ha fatto passi da gigante negli ultimi anni e offre enormi opportunità per l’erogazione di campagne pubblicitarie efficaci, mirate e che non prevedano la raccolta di terabyte di dati sensibili degli utenti.

Fino a poco tempo fa infatti, il concetto di targeting contestuale era limitato al matchmaking tra campagne pubblicitarie e keyword specifiche contenute all’interno di pagine web. Oggi, è possibile utilizzare sistemi di NLP (natural language processing) per inferire il significato di contenuti web di modo tale che gli inserzionisti possano utilizzare contesti specifici e brand safe per promuovere i propri prodotti/servizi. L’inserzionista ha la possibilità di scegliere contesti semantici ai quale associare il proprio brand senza sollevare alcuna questione di privacy.

Lo stesso discorso vale per gli editori digitali, che possono servirsi di tecnologie di NLP per segmentare i propri contenuti in categorie riconosciute dallo IAB ed inserirle nel sistema di bid visibili agli inserzionisti. E’ una strada che consente agli editori di rendere la propria offerta riconoscibile sul mercato e in grado di creare un vantaggio competitivo agli occhi di un inserzionista.

Siamo solo agli inizi e sicuramente ne vedremo delle belle nei prossimi mesi. Sul piatto della bilancia ci sono due esigenze egualmente importanti da proteggere: il diritto ad una privacy vera e consapevole per gli utenti e la tutela dei creatori di contenuti digitali, attori essenziali per garantire un’informazione libera, plurale e gratuita sul web.